♪♪
I don’t wanna be your friend
I just wanna be your lover
No matter how it ends
No matter how it starts
Forget about your house of cards
And I’ll do mine
Forget about your house of cards
And I’ll do mine
Fall off the table,
And get swept under
Denial, denial
The infrastructure will collapse
Voltage spikes
Throw your keys in the bowl
Kiss your husband ‘good night’
Forget about your house of cards
And I’ll do mine
Forget about your house of cards
And I’ll do mine
Fall off the table,
And get swept under
Denial, denial
Denial, denial
Your ears are burning
Denial, denial
Your ears should be burning
Denial, denial
♪♪
Radiohead – House of cards
È incredibile capovolgere un sistema e rendersi conto di quanto tutto possa rimanere estremamente coerente e veritiero.
Non c’è nulla di più equivocabile delle parole.
Parole sole, senza gesti, senza tono e senza sguardi: parole da interpretare.
C’è chi, su questa interpretazione, ha basato gran parte della propria vita, sfumando arricchendo e colorando. La loro forza stava nel poter significare qualcosa di specifico, e qualcosa di incredibilmente diverso per chiunque altro.
Possiamo costruire un mondo dietro ad una frase, anzi: dieci cento centomila mondi.
Ma tu sei pronto ad accogliere quel mondo? L’interpretazione è fortemente collegata a quello che provi. Emozioni e paure stirano e capovolgono quel messaggio; talvolta in bene, talvolta in male.
Sono solo castelli di carte, dicevano.
Ben saldi sulla polverosa moquette.
Aggiungi un unico tassello, un’ultima carta, cara!
Ma sei rapida e sbadata,
Ben intenzionata ma pur sempre incauta.
..e tutto frana sotto l’azione di un unica parola
detta o mancata.
Così io scrivo dedico e paleso.
..e aspetto.
Se manca l’ultima carta il castello trema. Regge per un pò, poco. Crolla.
Se aggiungi una carta a modo tuo, crolla comunque, non sempre ma spesso.
Impariamo ad accogliere quello che ci viene dato sintonizzando la frequenza del mittente e non quella delle aspettative.
Impariamo a dare e dedicare non unicamente focalizzati su di noi, bensì con un occhio sempre puntato su chi accoglie.
Siate strabici,
strabici amanti.
..e i mezzi sono ormai necessità.
..e i vestiti sono ormai indispensabili
per coprire anche i sentimenti, la verità.
..del resto, è pur sempre una questione di freddo.
Non so cosa ci vedi tu in questa fotografia,
io un po’ di libertà dai mezzi, libertà dai vestiti, anche. Anche.
Sotto un albero
cercando di scorgere il cielo tra le fronde
ma senza sapere bene cosa mettere a fuoco,
mi capita di rimuginare.
Mi chiedo cosa ne rimane
di quel bacino di positività che tento in tutti i modi di abbracciare
quasi fossero i panni sporchi da mettere in lavatrice;
mi chiedo cosa ne rimane
di quella pioggia che cerco di catturare,
di quelle lucciole che cerco di custodire.
..perché ogni maledetta volta c’è sempre un calzino che perdo per strada.
Tieni le scelte in bilico
sui polpastrelli di quelle tue mani morbide e in equilibrio
molli ed inerti
come recitassero il padre nostro.
Più preoccupato a non perderne neanche una
piuttosto che sapere quale afferrare,
avendone certezza
di custodirla e possederla con la grazia e tenerezza
che ti distingono.
Ed invece sei il solito giocoliere
dalle mille palline,
dai mille propositi
e dai mille polpastrelli.
Nascosto dietro a tutto ciò che posso sentire dentro di me
torno immediatamente bambino,
quel bambino dagli occhi tristi
sfuggevole
come la traiettoria di una foglia ancora verde in un tramonto estivo, caldo e umido.
Quel bambino tanto grande quanto incompreso.
Protagonista solo del suo angolo.
Ed improvvisamente la sento piangere, dì là, nel suo spazio.
Tutto torna desto, io
ricordo chi sono
e penso che ho solo voglia di far sparire quel pianto e quello di altri occhi.
Sarebbe uno di quei sorrisi interiori talmente immensi da riempire tutto.
Poi penso che quello che provo ora è solo una virgola del mio mondo,
una virgola verde che non si fa trovare
perchè devo aspettare una notte senza luna per rendermi conto che il cielo è ancora più stellato di quanto potessi pensare.
Non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo
di radici. Stridono e mi penetrano inconsciamente avvolgendomi nel giorno come un buio che scava e mi rincorre, come una nota che increspa il suono dolce di un disegno studiato da tempo.
Inciampare è normale. Ma quì si scavano fosse e si sradicano sentimenti.
E’ in quest’acqua gelida
che sogno la luce di una lanterna fievole ma duratura.
Come il vento di una cresta alpina
sentiamo l’ebrezza delle vertigini
calpestare i sogni e le meraviglie di un futuro insieme.
Così non ci resta che la paura di scendere senza guardare
verso quel blu tergido
e nascosto dal buio di una delle lune più tonde e velate.
Ricordo che fu una cosa progettata. Quasi infantile agli occhi di un estraneo; quasi infantile anche ai miei occhi di oggi. Eppure, progettarlo insieme, è stata una cosa meravigliosa. E’ stato il primo progetto, con una carica ed una intensità mai provati prima. Tutto ebbe inizio al thailandese vicino alla gelateria Gianni di via Montegrappa. Ci siete mai stati? In realtà non ha molto di più di un qualsiasi cinese: arredamento finto orientale, mezzi Cinesi che non hanno ancora imparato mezza parola d’italiano ma soprattuto tanta, tantissima puzza di fritto. E’ inevitabile, quella c’è perforza. Ogni cinese però ha qualcosina che lo distingue dagli altri: un nodo al fazzoletto, la disposizione delle bacchette, un centro tavola o, nel nostro caso, l’acquario. Il thailandese vietnamita di cui parlo ha due tavoli fatti di vetro, spessi una trentina di centimetri, al cui interno una manciata di minuscoli pesciolini si confondono con i sassi, con l’arredamento, con le chiazze di unto sul pavimento. Mangiare sui quei tavoli è comunque molto suggestivo e romantico… o almeno credo. In realtà non ci hanno mai seduti lì. A noi era destinato un minitavolino per due, molto vicino ai tavoli acquario, attaccato però al vero punto forte del posto: due orrende colonne di vetro con l’acqua dentro. Immaginatevi di lasciare un bicchiere d’acqua all’aperto per tanto tempo, con la premura di rimboccarlo ogni tanto. Dopo un po’ di tempo la purezza e la limpidezza che il binomio vetro-acqua possono avere svanisce completamente, ed al loro posto rimane quello schifosissimo alone bianco nella parte alta, il vetro a chiazze di sporco, di calcare, nel nostro caso di unto. Niente da dire: Òrende. Però c’erano le bolle dentro.. eh sì! Quello cambia decisamente tutto. Ma a noi il nostro minitavolinoperdue piaceva tanto. Alla fine era appartato, nascosto dalla colonna acqua calcare e bolle, era piccolo, era speciale. Quì, tra involtini fritti vietnamita con insalata e menta, la specialità del posto, iniziammo a progettare. Sapevamo che sarebbe stato il 30 novembre 2008. Sapevamo che sarebbe stato a casa sua, quella nuova, di cui ancora non possedeva le chiavi. E poi tutto il resto l’abbiamo deciso da lì. Abbiamo fatto una lista con l’elenco delle cose da avere, materiali e non. C’erano i tovaglioli, una tovaglia da mettere per terra, il miele, i formaggi, 2 bicchieri, il prosciutto, la mortadella, le casse ed il computer. C’erano i grissinoni, le candele, il vino rubato (anzi la cassa rubata), l’accendino. Così passarono i giorni… e gli aggiornamenti sono stati tanti: “Ho la copia delle chiavi di casa”, ho comprato questo, ho trovato quello. Finchè il giorno non arrivò. E con lui tanta, tantissima pioggia. Ovviamente lei mi aspettava a casa, ed io sarei arrivato, come il principe azzurro sul suo destriero bianco. Era già sera, quindi buio. L’acqua faceva un casino fortissimo: oltre al brusio di fondo, le gocce scrosciavano contro i miei scuri di metallo facendo un ritmo asincrono davvero molesto. Io avevo preparato ormai tutto. Avevo lo zainone di decathlon da 40 litri stra colmo. Avevo un pigiama, un cambio e una marea di cose. Ma quì il progetto era grande e noi volevamo strafare. Così avevo anche una borsa, di quelle plastificate e spesse, con la cerniera per chiuderla. Dava anche una parvenza di impermeabilità. Staccai le casse del computer per incastrarle in questa borsa. Ingarbugliato tra i fili ero buffo. E, soprattutto, non me ne fregava una sega di niente. Della pioggia, di mia madre, del freddo, del fatto che mi sarei bagnato. Le casse sono delle 3.1 della logitech. Quindi, come prima cosa, posizionai il subwoofer grosso ed ingombrante; era della stessa identica larghezza della base della borsa di plastica. Che culo. Tutto il resto si incastrò facilmente. E la borsa diventò colma anche lei. E pesantissima. L’abbigliamento era adeguato. Canottiera dentro le mutande. Fondamentale per i colpi d’aria. A dire la verità ci ho riflettuto un po’ se metterla o no. Fa maschio? o fa sfigato? In quel periodo non avevo di certo fiato, ma il fisico sicuramente più di adesso. Andavo in palestra. L’ho messa. Poi maglietta, jeans, felpa, giubbotto e impermeabile sopra a tutto. Un ultimo sguardo tra le fessure dei battenti di camera mia. Niente, non avevo nessuna voglia di aspettare che smettesse di piovere. Dopo quasi un anno mia mamma mi ha addirittura chiesto se volevo la macchina. Mi ha fatto sentire tremendamente bene. Apprensiva com’era mi ha lasciato andare, in vespa, con una montagna di roba sulla schiena e tra le gambe, con quel temporale, col buio. Le ho voluto un bene dell’anima, perchè ho letto che stava trattenendo la sua preoccupazione. Lo stava facendo per me. Perchè mi vedeva felice. Il primo passo fuori casa è stato come una secchiata d’acqua fresca in estate a 40 gradi sotto il sole. Peccato che fosse novembre e facesse un freddo del porco. La sensazione però era la stessa. Ero contento di prendere tutta quella pioggia. Mi faceva sentire un eroe, un cavaliere fiero, col petto all’infuori e la testa alta. Una difficoltà da superare, certo che l’avrei superata. Così posizionai tutto, con la minima cura, sulla vespa parcheggiata sotto un albero di alloro fuori dal garage, al riparo dalla pioggia fitta ma esposta ai goccioloni filtranti tra le foglie. Un’ultima pulita alla sella, lancio lo straccio in garage, perterra in un angolo. Chiudo tutto. Metto in moto e parto. Arrivo al cancello sulla strada, svolto nella via e prima di dedicarmi al 100% alla guida e alla pioggia, faccio un minimo ripasso. O meglio semplicemente mi chiedo “Ho preso tutto?”. Porca puttana il casco. Non volevamo precluderci l’opportunità di poter uscire, anche tardi, anche solo per vedere le stelle, la luna. Ma quale stelle ma quale luna, diluviava! Avrebbe mai smesso? NO. e non lo fece. Ma che importava.. il casco andava preso. Sono tornato indietro, parcheggiato sotto l’alloro, aperto il garage e mi sono infilato tra il muro e la macchina per raggiungere l’angolo in fondo. Beh… casco.. chiamiamolo così anche se non avrebbe protetto manco un sasso. Non si chiudeva neanche: bisognava fare un bel nodo. Sicurissimo ovviamente. Ora, ero davvero colmo. Dove metterlo sto benedetto casco? L’ho allacciato allo zaino alla meno peggio. Bona. Si parte? eddai. Niente, neanche 200m che il casco si slaccia e rotola in mezzo alla strada. Perfortuna non passava nessuno… mi son fermato, la vespa si è spenta, sono partite imprecazioni notevoli. “A sto giro non mi freghi”. Doppio nodo con stretta finale tenendo quel benedetto laccetto con i denti. Finalmente ero OK. Il viaggio è stato meraviglioso. Lo chiamo viaggio perchè sono pur sempre 8 km e la meta era a me sconosciuta: non c’ero mai stato a casa nuova. Ma avevo la mappetta stampata in testa, guardata fino a 3 secondi prima di uscire di casa. Rotonde, rettilinei e MR-Breeze davvero in forma. Sono passato sotto al grande sottopassaggio che collega il lazzaretto a via saffi. Una bella tirata e le goccioline che si staccavano e mi volavano dietro. La parte finale però è un bel rettilineo in salita, allo scoperto. Immerso tra le mille aspettative e con un sorriso a 122 denti, annusavo quegli odori umidi e talvolta pungenti della pioggia torrenziale. Poi mi giro, quasi per caso e lo vedo. Quel cazzo di casco si era slacciato un’altra volta. La macchina che stava poco dietro di me lo prende in pieno e lo scaraventa a lato. “Oddio” ho pensato e mo? Inizio a frenare in maniera un po’ impacciata, non sapendo bene dove e come, sapendo che la vespa si sarebbe spenta, con le mille borse e precauzioni anti pioggia. La gente su quegli stradoni è anche un po’ matta. E le velocità non sono sempre quelle da città. Così metto Mr-Breeze sul cavalletto a lato, ma comunque in mezzo al cazzo. Saltello come un fringuello bagnato qualche decina di metri prima per recuperare quel benedetto casco. Faceva talmente schifo che anche finito sotto una macchina non aveva subito cambiamenti apprezzabili. Ma comunque, indubbiamente, era l’ultimo dei miei problemi. Avevo superato la metà del tragitto. Ma col culo che volevo perderlo un altra volta. Poi come un coglione lo vedo: c’aveva l’asola in metallo e avrei potuto fin dall’inizio attaccarlo al gancetto del sottosella. Meglio tardi che mai. In tutto ciò ovviamente la pioggia era semplicemente aumentata di brutto. Evabbò. Sono ripartito questa volta senza fermarmi più. Il complesso abitativo era nuovo di pacca. Nessuno ci abitava ancora. Non c’erano parcheggi. Era intonso. Il piano terra è uno spazio coperto, un poco labirintico ma al riparo, con rampe per disabili e scale che collegano i 4 vani scala e i conseguenti accessi. Ho parcheggiato la vespetta a caso, difianco alla buchetta delle poste di non so quale numero. L’ho lasciata lì qualche minuto intanto che mi ripigliavo, mi “asciugavo” e cercavo quale fosse il numero 4. Feci un mezzo giro anche per capire dove parcheggiare Mr-Breeze e quando tornai a prenderla, mi venne da ridere: aveva fatto un lago sotto di se. Il pavimento era anch’esso nuovo di trinca, con ancora quella sabbiolina fine fine probabilmente derivata dalla malta per fissare le piastrelle. Avevo lasciato un segno. Ne avrei lasciati altri in futuro. Quello fu il primo. Incatenai il mio destriero alla rampa per i disabili. Era troppo fuori luogo. La salutai come faccio sempre e la ringraziai per il tanto cuore.
Infine suonai e lei mi aprì. La casa era minimal: vuota. C’era solo la cucina, i sanitari e il letto di camera sua. Riga. Io mi spogliai (erano bagnate pure le mutande, per farvi capire), mi asciugai, mi cambiai ed entrai nel suo Boudoir. E di quel che successe dopo posso dirvi che aveva un unico, intenso, inebriante, meraviglioso profumo di Ambra.
Mi succede appena mi sveglio, quando guardo il posto vuoto a colazione, quando vedo il nescafè.
Mi succede quando mi sforzo di mangiare, quel poco, la mattina, ma anche quando mi siedo a cena a non mangiare.
Mi succede quando ho la nausea, quando mi sento fiacco, quando sto per crollare.
Mi succede quando dimagrisco.
Mi succede mentre ascolto la musica.
Mi succede anche mentre cammino, in mezzo alla gente, al traffico, ai negozi. Incurante.
Mi succede quando sono al computer, tanto.
Mi succede quando il tuo profilo si aggiorna, qualsiasi cosa fai, qualsiasi cosa scrivi.
Mi succede quando penso.
Mi succede quando realizzo che hai riempito la tua vita di troppe cose,
e hai fatto uscire l’unica che ti riempiva il cuore.
Mi succede quando non so cosa fai, cosa pensi, cosa provi.
Mi succede quando so cosa fai, quando sei allegra, quando lo vedi.
Mi succede ovunque.
Mi succede da solo, con gli amici.
Mi succede quando non voglio.
Mi succede quando ascolto gli altri, quando la gente mi guarda.
Mi succede quando la gente mi chiede.
Mi succede quando la gente non sa.
Mi succede quando cerco di prendere coraggio.
Mi succede quando non ci riesco.
Mi succede quando mi trascino in vespa, quando piego, quando freno, quando svolto senza dare la precedenza.
Mi succede quando scrivo.
Mi succede quando non scrivi.
Mi succede quando l’ho ripubblicato, l’ho riletto, l’ho riascoltato.
Mi succede quando navigo nel passato.
Mi succede quando ipotizzo il futuro.
Mi succede quando ripenso ad un qualsiasi attimo passato insieme.
Mi succede quando provo a studiare.
Mi succede quando non ci riesco.
Mi succede quando sento qualcuno che ride, chiunque.
Mi succede quando penso a quanto ho tenuto duro, io.
Mi succede quando chi mi vuole bene mi rivolge la parola.
Mi succede in corridoio, in cucina, in salotto, in camera da letto.
Mi succede al cesso.
Mi succede quando mi guardo allo specchio, quando preparo lo spazzolino, uno solo.
Mi succede quando mi lavo i denti.
Mi succede quando guardo il muro vuoto.
Mi succede quando sono supino, a pancia in giù, in posizione fetale: che ormai non conta più.
Mi succede quando cerco di dormire e, probabilmente, anche mentre dormo.
Mi succede ad ogni volta che leggo “Mi succede”.
Mi succede anche adesso.
Mi succede sempre.
Jean, dove sei, con chi sei, ma soprattutto cosa sei?
E’ con le mani dietro la schiena,
legate dal filo del coraggio,
che mi fisso davanti allo specchio.
Vedo le lacrime che sento.
..e mi concentro per rimandarle indietro:
bisogna essere forti contro le casualità della vita.
Eppure non mi vedo a fuoco.
Non sono sicuro di essere io.
Forse perchè ho lasciato parte del mio cuore
dentro al tuo.
Senza te che mi completi
sono solo qualcun’altro.
Uno qualunque che segue la corrente di un fiume troppo salato.
Ti ascolto e riascolto,
come se quelle note, quella sequenza, quel maledetto timbro che da settimane mi martella in testa peggio di un chiodo fisso che spunta fuori la mattina la sera la notte torna fuori mentre sono in vespa si assopisce e risboccia rifiorisce la ricanto la canto l’avverto, dentro.
..come se quelle note potessero.
E non mi capacito di vederti così.
Stanco del mondo,
impaurito dalle cose semplici.
Ti vedo distante.
Ti leggo cattivo.
Sento freddo ai piedi.
Eppure tu per me sei lì,
in quella confezione un po’ piegata
e un po’ sfigata,
nascosto in mezzo a molti:
un biscottino speciale.
…ed io no.
O meglio si?: sono un uomo di parola?
Certo che sono un uomo di parola, per chi mi avete preso?
..è solo che ogni tanto mi prendo qualche libertà da scrittore imbecille:
tipo una licenza poetica andata male, adatta solo ai poveracci senza una lira, con poco spirito di sopravvivenza e tante morali a cui attaccarsi per vivere.
Ho dato la mia parola per amore,
mi sono concesso una licenza poetica per commozione.
Avete mai guardato negli occhi una persona a voi cara sdraiata in un letto d’ospedale?
Mentre odori intensi e pungenti ti trapassano il cervello, mentre suoni ripetitivi
e angoscianti ti disorientano e ti stancano dopo solo un minuto?
Anni di incondizionato amore ti pervadono con un semplice sguardo.
Compassione ed aiuto.
Quell’affetto stanco tanto forte quanto vero.
Quel sentimento che uccide anche la morte,
oltre.
Ti ho visto invecchiata e moribonda.
E mi sono innamorato di te, ancora.
E ad un tratto sono vecchio anche io, tra i fiori i campi e i fiumi. Tra la città e la campagna. Tra la macchina e il cane. Tra la casa, la nostra casa e l’ospedale. Tra i figli i poeti le fotografie.
Tra le cose e l’anima, la vita e la morte.
Mi sono visto con te,
ovunque e persempre.
..e mi vengono in mente gli errori. Troppi errori, o meglio, troppo ripetuti. Vorrei tornare indietro, ora che ti ho lontana, per redimermi, cancellare l’orgoglio e improntare le discussioni in un’altra maniera. Ora che sono lontanto vorrei essere riuscito a farti stare meglio prima.
Poi, d’un tratto, la soluzione. Annodata ed appesa tra le parole di un libro segreto, scritto più di 100 anni fà.
Quanto è bello sapere di essere vivo all’interno di un aforisma d’altri tempi, dedicato ad un lontano progetto di vite e di anime; rinato per me, oggi, come se il grande pallottoliere avesse una determinata sequenza di numeri, una combinazione precisa.
E non fortuite estrazioni dedite al caso.
Ti aspetto,
Ti amo.
“E’ importante rimproverare e correggere chi commette errori. Questo atto è la manifestazione della compassione e il primo dovere del samurai.
Ma è necessario sforzarsi di farlo nel modo corretto. In effetti è facile trovare qualità e imperfezioni nella condotta di un’altra persona così come criticarla. Molti s’immaginano che sia un atto di gentilezza dire agli altri ciò che essi non desiderano sentire e, se le critiche non sono ben accolte, li considerano irrecuperabili. Un simile modo di pensare è irragionevole e dà gli stessi risultati negativi che derivano dal mettere intenzionalmente qualcuno in imbarazzo o dall’insultarlo. Spesso è solo un cattivo modo di liberarsi la cosicenza.
Prima di esprimere una critica si deve essere certi che la persona sia disposta ad accettarla ed è necessario esserle diventati amici, aver condiviso i suoi interessi ed essersi comportati in un modo tale da ottenere la sua piena fiducia così che presti fede alle nostre parole. Poi è necessario il tatto: bisogna scegliere il momento opportuno e il modo appropriato di formulare la critica, magari con una lettera o dopo un incontro particolarmente piacevole, parlando prima dei propri difetti per condurre poi l’interlocutore a comprendere, senza sprecare più parole di quante siano necessarie.
Occorre lodare i suoi meriti, sforzarsi di incoraggialo, fargli assumore l’umore giusto, renderlo desideroso di osservazioni come l’assetato lo è dell’acqua: a quel punto bisogna correggere i suoi errori.
La critica costruttiva è una questione delicata.
So per esperienza che le abitudini cattive radicate sono difficili da estirpare. Mi sembra che la compassione autentica consista, per tutti i samurai al servizio di un daimio, nell’essere benevoli e amichevoli gli uni verso gli altri, nel correggere reciprocamente gli errori per servire meglio insieme il daimio. Mettendo in imbarazzo volontariamente qualcuno non si compie nulla di costruttivo. D’altronde, come potrebbe essere altrimenti?”
(I, 14)
yamamoto tsunetomo – hagakure
Il caldo mi assale
come fossi una lacrima,
evaporata solcando vallate di ghiaccio.
E sento rindondanti tremori ronzare solcare afferrare e bloccare,
come il vuoto che creai in te.
.. perchè oggi la fierezza del leone vacilla
e non mi sento diverso dall’agnellino che ero.
“Chi la fa, l’aspetti.” – mi dicevano.
e io non me lo aspettavo.
Ventidue.
Quanta importanza che ha per me, per la mia vita, questo numero.. tanta…
Vorrei dunque farmi gli auguri da solo.
22, ti ringrazio di essermi stato tanto vicino in questi anni, di avermi fatto compagnia, di avermi dato sicurezza, di avermi anche spaventato, talvolta. Di avermi spinto sempre nella direzione giusta. Di avermi fatto sbagliare, imparare.
Mi auguro di poter continuare a migliorare ancora, di poter maneggiare la vita come fosse una pallina di pongo, darle una forma, evolverla, sempre sotto controllo. Con determinazione, sicurezza e convinzione.
Vorrei essere questa fotografia:
compiacente di restare ad ammirare, in piedi, le mie idee i miei pensieri le mie creazioni i miei rapporti: la vita.
..con soddisfazione.
Ci sono giornate stupende che come un lampo vengono trafitte da qualcosa.
Si crea una breccia nel cielo, un solco, una spaccatura che precede inevitabilmente il declino.
La splendida giornata ti infastidisce fino a farti addirittura schifo.
Ti incazzi, ti arrabbi.
Ripugno.
Il motivo? C’è.. ma è insignificante.
E dunque, cosa può aver provocato tutto questo?
Riguardi il cielo e poi
sgomento.
Tu,
sei stato tu,
hai trafitto il cielo e aspettato che sanguinasse.
Dentro il freddo che sento avanzarmi dalla testa ai piedi quasi fosse un macigno che mi appesantisce e mi spegne ogni sorriso, fuori dal pulsare del mio cuore oggi stanco e senza sangue: eliminiamo il Forse.
E mentre il tempo mi penetra nel petto bloccando ogni movimento energetico del mio essere, 3 mesi son stati più corti di questa terribile giornataccia, vivi ed in espansione al contrario di oggi giornata eterna, morta e secca: eliminiamo il Spenta.
..e quando ci ripenso non ci credo, perché come un onda scrosciante e ritmica, che muore e rinasce, interminabilmente poi cresce non smettendo mai; navigo e volo, cullato e sorretto: eliminiamo il Accesa.
Non c’è stata scintilla
ma un prendermi per mano, portarmi sull’onda
e la convinzione che sei stata tU,
non quello che mi immaginavo che fossi.
Casa mia fu costruita negli anni ’20. Poi, in seguito alla guerra, venne parzialmente distrutta e di conseguenza ricostruita. Come ogni casa di quegli anni che si rispetti, presenta, sotto le grandi finestre delle fredde e marmoree camere, pesanti e grossi termosifoni in ghisa.
Io ho un rapporto meraviglioso con uno di questi.
In salotto, tra tappeti persiani, ventagli orientali, e il numeroso legno antico di cui sono composti il tavolo le sedie la madia la libreria il portatv e, soprattutto, il porta polveredasparo a forma di liuto;
mi ritrovo ancora oggi a studiare, rievocando il me liceale: tanto stanco quanto svogliato.
Le fotocopie giacevano ordinatamente per terra, sul tappeto. Erano suddivise in due pile, quasi fossero un bel libro di cui si girano le pagine già lette: a destra l’inesauribile colonna del sapere, a sinistra la magra conoscenza già acquisita.. sempre troppo poche quelle pagine.. sempre troppo lenta la loro ascesa. ..a metà: un traguardo.
..e gianluca?
Gianluca compare e sparisce quasi fosse un fotogramma di un lungo lunghissimo lungo-metraggio a camera fissa.
Talvolta seduto a gambe incrociate a fronteggiare gli appunti.
Talvolta sul divano.
Talvolta sdraiato.
Talvolta in ginocchio.
..e poi in piedi prima lì poi qui a destra a sinistra, con le mani nei capelli, con le mani sugli occhi..
ed infine
un fermo immagine. lungo e silenzioso.
gianluca alla finestra. stop.
Sento le cosce sfiorare leggermente
l’imponente termosifone,
aiutate dalle impercettibili scanalature volte alla propagazione del calore.
Le mani lo abbracciano anch’esse,
avvolgendolo proprio,
quasi quelle curve metalliche fossero fatte apposta.
..e la fronte appoggiata al vetro.
con lo sguardo fisso. fuori.
La finestra del mio salotto volge la vista ad un palazzo di 7/8 piani parecchio grande; il quale, diciamolo, copre quasi tutta la visuale.
..ma un abete, costeggiandolo, riesce ugualmente a superarlo e, di conseguenza, ad attirare la mia attenzione. Longevo rifugio per ogni forma di vita
è espressione di equilibrio e saggezza.
Amante del tempo e dello spazio
e possessore della chiave
Custode.
Albero.
Mentre la condensa si forma e sforma sul gelido vetro,
sento ardere le estremità;
guardo il cielo e la cima
e riesco più che mai ad annullare il pensiero.
Come fossi spento per alcuni secondi, immobile, concentrato al caldo e al freddo, al non pensare.
Difficile è il non pensare
Provaci a non pensare.
Oggi è un giorno stanco. Forse perchè nevica, forse perchè dopo due lunghi mesi mi sento inaspettatamente vuoto e solo.
Quella neve, che solitamente si lascia cadere e cullare dall’aria come la più soffice delle piume, appare turbolenta e disorientante quest’oggi: ogni singolo fiocchetto si muove dapprima a destra, poi a sinistra, e talvolta, sfidando le leggi della natura, si sposta decisamente verso l’alto, quasi volesse tornare al cielo.
Questi dodici giorni saranno per me come una giornata di neve dal significato morente;
e le scarpe fuori, sul davanzale.
“..e così scendete giù,
anime ribelli!”
..che tanto mi ricordano i tuoi ricci spumosi.
Navigherò tra le persone di questa fotografia, come fossi in un “bosco di braccia tese”, facendomi largo tra i rami e la neve. Un po’ spaesato, ma serio e convinto.
Ma quanto sono convinto?
Prendo a correre. mi fermo. sposto un ramo.
cambio direzione. neve, neve agli occhi, persone vive ma trasparenti, persone mi illudono non le vedo ci sbatto contro le sposto, le umilio, non mi interessa, lo sapranno. talvolta le voglio bene comunque.
Prendo a correre. mi fermo. sposto un ramo.
e vedo me:
“Quello sono io all’angolo”
“That’s me in the spot…light!” [trad. “quello sono io alla ribalta”]
Cercando te, trovai me.
Fui un tempo fievole come il primo nevischio sulle tegole di quella casetta laggiù…
… che prova ad aggrapparsi.. ma proprio non ce la fa.
Guardo il cielo cadere,
le candele fuori al freddo: residui di inspiegabilità;
poi te, sul cellulare
e mi chiedo in che fottuto casino ci siamo messi.
♪♪ Ryuichi Sakamoto – Merry Christmas Mr Lawrence ♪♪
Ruvida come la pietra
al dolce tatto
è la vita.
La tua, la mia.
Le mani che all’improvviso si gelano:
ogni solco le uccide
e le
tormenta
tanto da renderle
pesanti.
rocciose,
tanto da renderle
le mani di qualcun’altro.
Centimentri di sali e scendi
mi portano,
ti portano
ad affrontare le lunghe ombre dell’essere:
Tieni un piccolo fiore tra le mani
e me lo porgi allungando leggermente le braccia,
ruotando impercettibilmente le punte dei piedi,
e abbassando infine lo sguardo.
Quanti istanti potranno passare prima di percepirne la reazione?
Chiudi così gli occhi, li strizzi più che puoi
insieme ai pugni, tanto da vedere le stelline.
Poi te ne accorgi: ti stai scordando di respirare!
Tutto è immobile,
perfino l’aria.
Aspetti soltanto
un bacio.
A volte però la risposta non è un semplice bacio,
perchè quello che porgi forse non è un semplice fiore;
e l’attesa potrebbe essere eterna.. cosa fare?
Dovresti porgere ugualmente, porgere incondizionatamente e con serietà,
convinto che ora o poi il positivo porta benessere. Sempre.
E la strada giusta sta lì,
ad un petalo di distanza.
Hai paura: più che dell’apnea, di rovinare il passato
latente e nascosto dietro la bellezza di un quadro appeso storto.
Abbassi lo sguardo,
ruoti leggermente i piedi
e strizzi gli occhi,
ma il fiorellino è ancora nelle tue mani
avvolto dal calore,
dietro la schiena.
Non porgi niente
e forse nemmeno te ne accorgi.
L’autunno ha ancora il sapore del sole.
Percettivamente è sempre stato considerato, da me e forse anche da voi, un periodo intermedio, una fase di passaggio che con grande silenzio e velata impercettibilità scivola via.. giorno dopo giorno.
Ci si proietta in avanti, magari già al Natale, lontani dalle prominenti attività. Lontani dal grande inizio anno. Lontani da tutto quello che si aveva lasciato prima dell’estate: pensieri emozioni persone che si vogliono gettare indietro perché poi, si sa, ad ottobre è vita nuova.
Magari i buoni propositi ci sono anche, l’idea che sia solo una semplice ripresa.
Non credo sia così per nessuno.
Non credo sia così per tutto.
Eppure..
l’autunno non è solo questo. Ad ottobre ci sono i primi “geloni” e gli acquazzoni ma anche caldi tepori e profumi.
Se riesci, fermati un attimo e pensaci.
…
Non ti accorgi di apprezzare ancora di più la domenica di sole ora?
Volgergli il viso, chiudere gli occhi, lasciare che ancora una volta la pelle si tenda, si tiri, si secchi un poco.
Sorrisi.
Ti apri uno spiraglio al cielo; e come fai a non apprezzarlo di più ora che ne percepisci la caducità?
.. e poi hai la pioggia. Quella pioggia che puoi ancora permetterti di prendere: magari su di una panchina di legno, sotto ad un rosso albero dalle foglie caduche, il capo chino e il rumore dell’acqua.
Ti piacciono le gocciolone. Quelle grosse provenienti dall’albero, raggruppate e lasciate cadere, ti colpiscono sulla nuca per poi arrivare, solo in un secondo momento, agli occhi.
Così l’autunno si srotola, come un gomitolo di lana all’aria, tra rimembranze solari e appannati preavvisi.
Ribaltamenti e capovolgimenti per lui, per noi.
Cambiano le foglie, i colori.
Gialli Rossi e Marroni nascosti dal grigio della strada.
Io i colori li ho visti.
Caldarroste e vino tra luci soffuse e anime splendenti.
(Quanto vorrei saperlo esprimere con una fotografia…)
Accordi dolci
pestati sull’avorio
ed archi soffiati
ti accompagnano.
Ottobre non ha nulla di pungente
e tutto, ancora una volta, diventa un connubio tra le Arti.
Dentro e fuori di me.
G IANLUCA Girovago: Galleggia. Gelsomino I nebriante Inspiro. Innondato Immanamente, quindi Inerte. A ncora Assonnato Ammiro l’Aldilà. Albeggia. N ulla. Nemai Neora. Nessuna Necessità di Nascondere Nel Nero Nòcciolo L ‘unica Lamentela Logorroica che L’amore ha U rlato, Unto, Ubriacato nel mio C uore. Comincio Così A ncora.
Sei ingiusta, vita.
Non puoi impormi di diventare sempre più me stesso.
Mi poni ostacoli, difficoltà, Mi togli le gioie,
per poi confermarmi che vado bene così, come sono.
A che scopo questo?
Non puoi impormi di essere sempre più me stesso.
La Tua grande mano mi penetra,
Afferri le mie viscere e,
lentamente,
mi svuoti,
trascinando tutto quello che possiedo
attraverso la gola,
fuori.
Una mongolfiera che pulsa:
si gonfia, poi
si asciuga
risucchiata in un sottovuoto delirante.
E’ in aria, nel cielo
ma con il sole coperto.
Non riesce a volare
se non rallentare l’inevitabile
caduta.
Non ho più occhi per guardare il cielo,
Eppure
Avverto quella pesante nuvola coprirmi la luce.
Fa freddo
ed io mi aspetto soltanto
che piova.
Voglio correre contro il tempo,
ora.
Perchè è come se sentissi il battito del mio cuore
sino agli occhi, le orecchie, la testa.
Un treno che scroscia e vibra in un binario circolare
mi ruota attorno lasciandomi inerte e tremulo:
a digiuno e assetato.
nel mezzo.
Poi ad un tratto
una parola.
Riesco a vedere una fermata.
l’infausto motore si ferma.
salgo.
Si chiudono le porte e finalmente sorrido.
Mi sveglio,
era un sogno.
Creo il titolo: “Quando i nostri sguardi si incroceranno,
i girasoli inizieranno a seguire la luna.”
ma la foto era già qui, nella mia testa,
perché l’ho voluto io.
acchiappo il mio cuore dal comodino poco distante da me,
sottocchio,
dove era stato riposto la sera prima.
Accovacciato, con il capo richino, sulle ginocchia e le braccia che avvolgono le gambe ricurve.
Sì, è la posizione fetale: quella che ancora talvolta assumo; quella di cui, dicono, non abbia più bisogno. Eppure…
Mi arrivano lontane le parole di un comico: è di là, nell’altra stanza, come in milioni di altre stanze, camere da letto, salotti.
Battuta. ahah. risate finte.
Neanche lo ascolto. Eppure… tristezza.
E così: quando è stata l’ultima volta che ho pianto?
Di sicuro è passata un’estate intera. Felicità? Non credo proprio.
Aver rischiato la vita quella sera di dicembre mi ha fatto morire dentro.
Crescere maturare riflettere capire, non capire; ma soprattutto morire.
Forse dopo la morte tutto è più felice. Sono morto, ho pianto, sono rinato. E da allora neanche una lacrima.
Adesso me lo chiedo il perchè.
Perchè passato il male ho voluto sorridere. E l’ho fatto. E mi ha fatto stare bene.
Ora sto bene.
Sono stato sicuro di me per un’estate intera. Ho sorriso. Ho vissuto. Ho amato, anche. Forse per pochi istanti… e comunque col sorriso.
Ma guardando indietro ora, mi sento superficiale. So di non esserlo stato rispetto agli altri. Mai dò risposte superficiali a domande profonde.
Sono stato superficiale con me stesso: io e me non ci siamo parlati.
Il bambino Gianluca è dunque arrivato.
Lo accolgo. Assumo la posizione.
Mi agguanta, mi penetra. e fa male.
Una pioggia di ghiaccio in caduta libera incontra la mia pelle distesa, tesa.
Si arresta di colpo. Fitta intensa…
…gradualmente affievolisce.
Del resto ho passato mesi a domandarmi.
Ho fatto un bel lavoro psicofisico su di me (spirito anima corpo mente), poi l’estate è stata come una vacanza.
Ma è ottobre. Bisogna mitigare. Voglio occhi nuovi per leggermi dentro.
Già qualcosa è successo. Non lo vedo, non lo sento. Lo percepisco.
E’ qualche giorno che la penso.
Un battito d’ali in un angolo, la sù, in alto a destra.
Mi trascina la mente quasi come ci fosse un filo; quel filo già conosciuto, già scoperto.
Ma poi la farfalla non c’è, non mi ci riesco a soffermare sopra.
E allora capisco che il cuore non si ferma.
Burattinaio delle mie emozioni, non c’è volta che ti sveli!
E così Gianluca si distrae, ti pensa. Alza gli occhi in alto a destra.
E’ un istante profondo, questo; che non porta fantasie, immagini, figure, fotografie.
Il cuore tira il filo.
Poi c’è la tua essenza.
E l’istante aquista significato.
…io non lo so spiegare…
Sta sera ho la fronte a contatto con le ginocchia. Mi abbraccio.
Lo faccio con consapevolezza.
Sono vivo.
È sempre così:
solo il non poter amare un’altra persona,
il non poterla vedere,
il non poterla toccare..
ti stimola a fare l’unica cosa che puoi fare
ma che non devi:
Pensarla.
Ma tu, sei bravo.
Non lo fai.
Come il riflesso di una luce nella notte
ti appare senza volerlo un fotogramma davanti agli occhi.
Tutta un ora in un istante.
Una bella foto che passa colpisce e se ne va.
E tu ti chiedi perchè ciò accada.
Tu che non la pensi
Tu che non la vedi,
Tu che non la tocchi,
..giusto per non lasciare che le mie parole siano solo inchiostro su carta.
Forse qualcuno potrà immedesimarsi anche solo in una delle sensazioni emozioni immagini pensieri idee da me descritte.
Ed allora io sarò contento.